Lavoro è dignità
Credo di averlo visto almeno un paio di volte.
Ogni volta vi scopro luci nuove, emozioni nascoste, semplicità cruda e povertà regale.
Il dramma della perdita del lavoro, anche se a tempo determinato e sottopagato, va pari passo con la perdita della dignità e dell’autostima.
Per le donne è ancora peggio.
Vivono con lo spettro della gravidanza e del licenziamento assicurato.
Luciana decide di reagire, come faceva Marione, suo padre, che le raccontava storie di vita e non favole. La verità lei la sapeva. Ma viverla al culmine della disperazione, quello no, non credeva di essere vinta, ferita, umiliata.
Non sconfitta, a modo suo.
Il meraviglioso e straziante monologo, culmine della storia, è il racconto di una vita. Quella di Luciana, che un giorno potrebbe essere quella di una di noi.
Un brano stupendo fa da colonna sonora stupenda. Sempre Vicky!
Stronza
dal Web
Ho dovuto aspettare un giorno per far decantare il dolore, l’incredulità, l’umiliazione e tanto altro provati e vissuti ieri nella mia Milano, multirazziale, multietnica e quant’altro…
Per raggiungere da casa mia la zona San Siro ci vuole parecchio, per una persona come me che in più ha difficoltà di mobilità e di barriere architettoniche i tempi sono biblici. Arrivo finalmente alla mia meta, c’è vento caldo, sono sola come al solito nei miei spostamenti, ho bisogno di bere. Appena incontro qualcuno nella comunità che sto raggiungendo chiederò una mano per prendere la bottiglietta che ho nella borsa e finalmente reidratarmi.
Eccomi, davanti a me soltanto due persone in attesa, almeno quelle che si vedono all’esterno nel cortile. Aspetto, a un certo punto passa un ragazzo africano. Lo fermo per chiedere informazioni e mi dice che devo aspettare l’arrivo del responsabile, cioè che trovi il tempo per fare i gradini che io non posso scendere per entrare nel suo ufficio… Cominciamo male – mi dico – visto che la persona che attendo è un religioso. Non è questo comunque ciò di cui voglio parlare.
Fuori insieme a me ci sono una donna araba velata e un uomo che l’accompagna. Quando mi trovo in queste situazioni approfitto sempre dell’attesa per tentare una qualche forma di comunicazione che altrimenti difficilmente si riesce ad avere. Tutti sono sempre di fretta oppure occupatissimi con i propri cellulari, tanto da non poter nemmeno alzare lo sguardo per incrociare quello di qualcun altro e tentare almeno un sorriso di saluto.
Mi piace ancora sognare.
“Ciao, tutto bene?”
“Sì, tutto bene”.
“Vedo che siete arabi, posso chiedervi di che paese siete?”
“Siamo del Marocco“.
“Davvero? Il mio attuale compagno è del vostro paese! Lui è di … e voi?”
“Siamo di Casablanca, siamo vicini a …”.
Non so perché ma nel cuore ho provato lo stesso sentimento che in quel momento credo avrebbe avuto un loro compaesano. Da quando vivo con un uomo marocchino mi sento come se facessi in minima parte “comunità” con quelli di loro che sono all’estero, in questo caso in Italia. Questo sentimento mi fa vivere momenti estremamente diversi tra di loro. Per esempio, se sono arrabbiata non sopporto nemmeno di sentir parlare arabo in autobus; se invece sono serena o felice abbraccerei il mondo intero, in particolare con loro mi sento in quel momento con una famiglia allargata. Mi rendo conto di essere un po’ ingenua ma mi voglio bene così. Con questo stato d’animo continuo la conversazione, che però piano piano da parte della donna si trasforma in una raffica di domande incalzanti alle quali mi dà il tempo di rispondere solo a monosillabi.
“Quanti anni ha lui? E tu? Avete figli? Vivete insieme?”
Mi ritrovo a risponderle in modo automatico, quasi senza pensare, incapace di articolare qualsiasi altro discorso davanti all’interrogatorio. Con il senno di poi mi sarebbe piaciuto fare quello che c’è nella figura in alto… non posso farlo fisicamente però avrei dovuto troncare il discorso e basta visto che l’interesse del dialogo e non del pettegolezzo era unilaterale. E invece…
“Quasi 41. Io 53. No, non abbiamo figli. Viviamo insieme da un paio d’anni”.
E adesso arriva il masso che mi ha schiacciato…
“Ma come fa lui che ha 41 anni a stare con te che ne hai 53 e sei disabile? Guarda che non è possibile una cosa così! Stai attenta, perché un uomo marocchino non può stare con te che sei in questo modo!” accompagnando le sue parole con uno sguardo di pietà se non di disprezzo diretto al mio corpo e alla mia carrozzina e aggiungendo con insistenza un elenco di “NO, NO, NON è POSSIBILE“.
Non sono riuscita a dire nulla.
L’uomo che l’accompagna, che ho scoperto essere suo fratello, molto più in vena di fare conversazione e conoscenza, cerca di mettere una pezza sulla ferita che sua sorella mi ha appena provocato dicendo: “Si vede che lui è innamorato“.
Da quel momento non mi parlano più. Io neppure, visto che nel frattempo è arrivata la persona che aspettavo. Vado via velocemente per non perdere il pullman che mi porterà a casa un’ora più tardi.
Mentre sono sull’autobus piano piano realizzo quello che è accaduto e… la rabbia sale, mista a tristezza, senso di inadeguatezza, di immensa solitudine e impotenza. Ho voglia di spaccare qualcosa per non sentire questo dolore dal quale non mi posso difendere. Vorrei poter correre, piangere liberamente, gridare parolacce a quella donna così dannatamente piccola e semplicemente STRONZA!
Improvvisamente mi sento con nulla da capire, nulla da scusare, nulla da dover sopportare perché tutto enormemente ingiusto.
Contro ogni realtà io continuo a credere nella bontà della gente, nonostante tutto.
Mi aggrappo a questa mia convinzione profonda sull’umanità, quell’umanità che vede oltre il mio corpo non autosufficiente e oltre il colore della pelle del mio compagno.
Si può essere razzisti essendo invidiosi di quel poco che il prossimo ha, ma soprattutto del tanto che l’altro è, perché a noi – in questo caso a quella donna STRONZA – manca: un briciolo di bene nel cuore.
In questo momento non riesco a giustificarla, neppure pensando a un eventuale passato personale senza amore. Non me ne frega niente! Io non le ho fatto nulla di male. Le ho permesso di entrare un momento nella mia vita che lei ha disprezzato. Come piace dire a molti arabi, in particolare musulmani: “Dio vede“. Naturalmente vede chiunque lei compresa. Questa è una certezza che abbiamo in comune.
Questo è quanto mi sento di dirle dal profondo del cuore. Io non devo giustificarmi di nulla. Ho una vita da vivere, non posso perdere altro tempo.
Sempre Vicky.